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Il caso mediatico dell’”errore di comunicazione” di Chiara Ferragni nella campagna di pubblicità del suo Pandoro in collaborazione con Balocco ha scosso il dibattito pubblico, riesumando uno sdegno verso un mestiere che pareva ormai essere stato digerito dalla società.

Gli influencer sono infatti coloro che hanno mostrato, per primi, fino  a dove si sarebbe potuta spingere la tecnologia. Quando Chiara Ferragni solitaria instaurò un modello per centinaia di migliaia di altri creator, nel 2013, ogni salotto d’Italia fu colmato dai rimproveri dei vecchi austeri, gli influencer simbolo di un mondo a rovescio in cui bastava ballare o fare lip-sync per guadagnarsi da vivere.

Pure ora essere un influencer è un lavoro che, per quanto considerato frutto di un privilegio, per cui bisogna ringraziare, si è consolidato come parte importante delle società del futuro. Considerando dunque la crescente importanza e normalizzazione che tale lavoro sta acquisendo in questi anni, bisogna pure che tale lavoro sia un lavoro davvero. Se i content creator vogliono essere considerati lavoratori, che siano lavoratori in tutto. 

L’influencer non può continuare a vivere nella labile terra delle incomprensioni, dei prodotti pubblicizzati, degli atti di carità così tanto esposti da farci dubitare dell’integrità degli stessi. 

Sia chiaro: per me, “la carità si fa in silenzio” non vuol dire niente; e ancora meglio che gli influencer, dall’alto dei loro megafoni, sfruttino questo privilegio per spingere i loro follower ad impegnarsi in temi sociali e di beneficenza. Eppure la beneficenza deve essere espressa in termini chiarissimi, regolamentata, distinta dalle attività commerciali e di promozione. La stessa Chiara, nel suo patetico video di scuse, lo sostiene.

Dunque, che gli influencer si diano ad attività di beneficenza; che anzi si sentano anche, in parte, in obbligo ad intraprenderle; ma sempre in una trasparenza che renda ovvie le clausole, che non faccia lucro su di un nome a fini personali; o che, anche facendo lucro su di un nome, lo faccia per abituare, per invogliare alla beneficenza anche chi usualmente non la pratica.

Ma le responsabilità di influencer come Chiara nei loro presunti errori di comunicazione sono uguali a chiunque altro tutt’al più penalmente, di certo non eticamente. Ci pare ovvio che Chiara abbia commesso un atto estremamente deprecabile; un atto che ci appare un crimine ancora più deprecabile in quanto commesso e poi turbolentemente cercato di nascondere in uno svolazzo di sabbie. 

Questo è un non riconoscere la colpa, sminuirla; coprirsi dietro allo scudo degli “errori di comunicazione”: che sono solo un altro modo, più perifrastico, per accennare a una colpa ben cosciente. Chiara era ovviamente consapevolissima della sua truffa. Non gestiva direttamente i soldi incassati dalla vendita del Pandoro, sì; ma, poiché l’operazione è durata diversi mesi, e quelli di cui parliamo non sono spiccioli, anzi una somma ingente, 

Dunque non condivido che si stia mandando Chiara, e altri influencer, alla gogna mediatica. Questo è semplicemente il loro posto. Nel ricoprire l’impiego dell’influencer, hanno sottoscritto un patto che facesse dell’apparenza il loro lavoro, il loro guadagno; e insieme dell’apparenza la loro rovina. È un concetto simile all’essere famosi e famigerati.

L’esposizione del tuo personaggio a un vasto pubblico ti permette di moltiplicare i tuoi messaggi, le tue azioni, commesse sul palco di tutti; che siano questi positivi o meno sta a te deciderlo.

I content creator vivono dell’ambivalenza della fama più di chiunque altro, più anche degli attori e dei paparazzati; e il livello di attenzione dello spiccio giornalismo italiano verso personaggi del calibro di Chiara Ferragni e Fedez è paragonabile al brusio hollywoodiano per le star del cinema. 

Ma gli attori guadagnano in quanto recitano, regolarmente si frantumano il cuore. Gli influencer devono mostrarsi a un pubblico come primo obiettivo, sperando di accalappiare qualcuno che possa seguire i loro consigli, vestire i vestiti che promuovono, comprare le marche che sponsorizzano. Avere una certa magnitudo in una specifica fetta del mercato, per Chiara della moda, determina il tuo successo come influencer.

 

Eppure è ovvio che, appunto, influenzando gli altri, uno dovrebbe meritocraticamente vincere dai suoi meriti e soccombere dai suoi scandali. Scandali che verranno senza dubbio amplificati; ma non fa forse anche questo parte del crudele mondo dell’apparenza, del giornalismo, dei personaggi del web, dei social media? Tutto si ripete; le scelte stilistiche di Chiara Ferragni passano di bocca in bocca; gli scandali non sono da meno.

 

Tutto si distorce; è ovvio che possa accadere che gli influencer non siano responsabili del carico di accuse cui vengono gravati dalla stampa. Tutto si intreccia, storie d’amore, scandali penali, affarucci ed inezie insieme, i propri bambini e business commerciali. Il singolo, pure uomo, deve sopportare tutto questo. Ci pare ovvio, guardando il volto di Chiara Ferragni, che non è solo la paladina, ma anche la donna, che lei non debba pagare poi troppo. È una donna come tutte le altre.

 

Eppure oggi più che mai chi può indirizzare altri su certe vie ha enormi responsabilità. Un Pandoro che costa 9 euro, la commercializzazione, la strumentalizzazione del proprio nome, vendere sé stessi, in un certo modo, come impresa commerciale, senza offrire nulla in più che il proprio vuoto nome idolatrato, tutto questo, nel capitalismo, acquisisce un’altra profondità e fa leva sulla cedevole volontà della nostra società di massa.

 

Chiara è una donna sì; ma ha firmato il patto. E deve pagare.

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